Ovvero pedalare in libertà

La schiena del gruppo

La lettura del libro di Stefano Pelloni “La schiena del gruppo - l'inevitabile punto di vista di un ultimo arrivato” ha risvegliato tanti ricordi della mia adolescenza.

Diversamente dal protagonista del libro (un giovane che ha corso per sei anni nelle categoria degli esordienti, allievi e juniores) la mia partecipazione al ciclismo agonistico si è limitata a soli due anni di allievo.

Anche se solo per due anni, è stato questo un periodo intensissimo della mia vita, che mi ha lasciato dei ricordi che ancora oggi mi provocano tanta, tanta nostalgia. I ricordi delle emozioni che ho provato successivamente giocando a calcio, ed in particolare nel momento topico di questo sport, il gol, con gli abbracci ed i festeggiamenti dei compagni e del Mister, non sono nel mio cuore così pungenti come il ricordo di quelle domeniche passate a correre in bicicletta in mezzo al gruppo.


Forse perché l’impegno dell’allenamento nel ciclismo è molto più forte, dal freddo di gennaio, alla canicola estiva, fino alle piogge di ottobre, o forse per i legami di amicizia con i compagni di allenamento, ma, credo, soprattutto per i legami, anche difficili, che questa esperienza ha lasciato nel rapporto con mio padre.

Devo prima di tutto precisare che, proprio come il protagonista del libro (ma anche peggio), io ero proprio quello che si può definire “un perdente”.

Ho iniziato a correre nel 1981, quando avevo quindici anni, l’anno in cui ci si iscriveva al primo anno della categoria allievi. Correvo per il G.C. Noventana, la squadra del paese dove abitavo allora. L’inizio della stagione era fissato per l’ultima domenica di marzo. La mia prima corsa è stata una corsa in linea nei pressi di Vittorio Veneto (a Refrontolo mi sembra) per 60 km quasi tutti pianeggianti eccetto nella parte finale, in salita. Le corse in linea differivano di molto da quelle su circuito perché gli “stop and go”, tipici delle curve nei pressi degli incroci, in cui il gruppo quasi si fermava per poi ripartire alla velocità di oltre 40 all’ora, erano molto meno frequenti. Sarà stato forse per questo motivo che sono riuscito a terminare la prima gara a cui ho partecipato, anche se staccato dal gruppo con un ritardo di circa un quarto d’ora.

Mi ricordo che il giorno dopo, mio padre mi aveva telefonato a casa dal lavoro per dirmi “Sei contento? ma ti rendi conto di quello che sei riuscito a fare?”.

Il guaio è che, successivamente, partecipando a gare in circuiti anche molto brevi e nervosi, mi staccavo regolarmente, bruciando il fiato ed ogni forza residua anche dopo appena uno/due giri.

La prima corsa che sono riuscito a terminare, rimanendo interamente nel gruppo, è stata solamente a maggio, a Martellago.


Per questo mio primo successo devo ringraziare il mio compagno di squadra Bruno per quello che mi disse nell’ammiraglia, mentre aspettavamo un altro compagno che eravamo passati a prendere: “Andrea, tu non sei più debole degli altri, in allenamento sei come me, perciò hai anche tu la possibilità di finire la corsa. E’ solo questione di testa, devi solo dire a te stesso che ce la puoi fare, devi rimanere in gruppo e non pensare mai alla paura di staccarti, non guardarti mai indietro, non guardare se sei rimasto tu l’ultimo, pedala e resta attaccato agli altri, giro dopo giro”.

Sta di fatto che dopo quella prima volta, non mi sono (quasi) più staccato dal gruppo e un po’ alla volta finivo le gare (anche quelle oltre i 100 Km di fine stagione) senza nemmeno sentire più la stanchezza.


Il secondo anno da allievo è andato naturalmente meglio, anche se purtroppo ero l’unico corridore rimasto della categoria nella mia squadra e perciò avevo perso i miei compagni di allenamento, Bruno e Maurizio. In allenamento, mio padre, anche per non lasciarmi andare per le strade da solo, aveva voluto che mi aggregassi a due cicloamatori che erano degli sfegatati e con i quali non si andava mai sotto a giri di 80 Km, per minimo tre volte a settimana. Uno di loro era stato, proprio in quegli anni, anche campione italiano della propria categoria. Con loro credo che il mio livello di allenamento avesse raggiunto in effetti livelli più che buoni. Ricordo che quando, in giro per i colli Euganei, capitava di incrociare altri ragazzi della mia categoria, nelle salite riuscivo a staccarli senza difficoltà e addirittura una volta sono riuscito a rimanere a ruota ad un mio ex compagno di squadra, buon scalatore, che era nel frattempo passato con gli juniores.

Ma, purtroppo, nelle gare continuavo a rimanere nella pancia del gruppo con grande rammarico di mio padre che, non dico che volesse vedere in me un campione, ma almeno una volta tanto avrebbe voluto vedermi andare in testa, tentare una fuga, uno scatto...

Con il senno di poi credo che i miei limiti, che non mi hanno mai permesso di ottenere un risultato decente, un piazzamento, fossero:

  • la mancanza di grinta e di un po’ di cattiveria. Non si può correre in gruppo e lasciare anche un minimo spiraglio agli altri per gentilezza, come si trattasse di far passare prima una signora in ascensore. Ogni energia va scrupolosamente risparmiata, a costo di farsi largo con i gomiti, le scie conquistate vanno difese con determinazione, ogni centimetro è importante quando i chilometri da percorrere sono tanti e a tutta velocità.

  • la mancanza di un direttore sportivo che mi desse dei validi consigli prima della gara. Durante la settimana ero abituato ad allenarmi nel pomeriggio dopo pranzo, mentre le gare domenicali si svolgevano spesso al mattino o subito dopo mezzogiorno, quindi arrivavo alla partenza solo con una colazione scarsa in corpo. Chiaro che le energie dopo qualche chilometro venivano prosciugate e sentivo una “strana debolezza” che in allenamento non avvertivo e che, nell’ignoranza, attribuivo all’emozione, anche se in realtà ormai ero abituatissimo alle corse. Se invece avessi avuto qualcuno che mi avesse detto di fare un bel carico di carboidrati un paio d'ore prima della corsa!

  • il mezzo. Allora le biciclette non erano così raffinate come adesso, i telai erano tutti in acciaio, il cambio era ancora posizionato sul telaio, ma c’erano comunque biciclette e biciclette. Il modello di cambio (Campagnolo Super Record) che avevo io, era così scarso che per trovare la posizione giusta, che non grattasse la catena, dovevo ritoccarlo almeno tre volte e poi lasciarlo sempre fermo lì, oppure partire con il 52/16 e pedalare sempre così.

Ormai è acqua passata, certo, ma il rammarico per non essermi mai tolto nemmeno una piccola soddisfazione in due anni di “carriera” (e di passione, tutto sommato) resta ancora vivo dentro di me.

Per la verità nel secondo anno di corse, senza rendermene conto, in una gara a Castelguglielmo, in provincia di Rovigo, sono entrato nei primi quindici. Siccome oltre agli organizzatori della gara che premiavano sempre i primi quindici dell’ordine di arrivo, anche la federazione ciclistica mandava una piccola somma, io l’ho saputo solo quando mi è arrivato un assegno di 1.800 lire per posta!


Purtroppo ero così abituato ad arrivare intruppato a centro gruppo che non mi fermavo nemmeno più, dopo la gara, ad aspettare la graduatoria e così quella volta non ho nemmeno ritirato il premio che mi sarebbe aspettato.

Sono sicuro che se avessi ritirato quella coppa, ancora la terrei stretta come il più caro dei miei ricordi.

Purtroppo, ad accrescere questo senso di rimpianto e nostalgia per quegli anni, mi è rimasto soprattutto il ricordo del volto di mio padre alla guida dell’auto, mentre facevamo ritorno a casa dopo le corse, con quello sguardo fisso alla strada ed una piega di tristezza sulle labbra. Io lo guardavo con la coda dell’occhio, senza il coraggio di rivolgergli parola, poi mi giravo dall’altra parte a guardare fuori dal finestrino e, qualche volta, mi scendeva pure una lacrima.